La celebrazione del V Centenario della Fondazione dell’Istituto delle Figlie di San Giuseppe vuole essere l’occasione non solo per presentare la realtà antica e sempre attuale del carisma di questa Congregazione religiosa, così benemerita per l’educazione della gioventù genovese, ma anche – e vorrei dire soprattutto – per rimettere in luce due grandi protagonisti della storia civile e religiosa della nostra città e – lasciatemi aggiungere – di tutta la Cristianità, Santa Caterina Fieschi Adorno e il Servo di Dio Ettore Vernazza, e per evidenziare altresì il ruolo che la loro ispirata attività caritativa ha avuto nella storia della Chiesa locale ed universale, tanto che Genova divenne – come dice il titolo di questo Convegno – Capitale della Carità.

Vedremo come dalla santa creatività di Ettore Vernazza, figlio spirituale di Santa Caterina, sia sorto anche questo Istituto delle Suore Figlie di San Giuseppe, ma ora ripercorriamo alcuni passaggi fondamentali della loro vita e delle loro opere.

Ho detto prima che occorre “rimettere in luce”, giacché il passato seppe essere molto più generoso e consapevole nei loro confronti.

Un illustre devoto di Santa Caterina  Fieschi  Adorno,  Jean Guitton,  nella  prefazione  ad un’opera francese dedicata alla Serafina di Genova (così era abitualmente chiamata), non esita a definirla: “une mystique du plus haut rang et qui n’a pas encore la gloire qu’elle mérite à cause de la pureté et de la profondeur de sa pensée”.

E’ purtroppo vero che Colei che tanto entusiasmo suscitò nella Francia del grand siècle è pressoché  dimenticata nel panorama della teologia e spiritualità contemporanea, che potrebbe invece trarre grande giovamento dalla sua dottrina, soprattutto sul tema dell’amore di Dio e del Purgatorio, dottrina, sulla quale in questa sede non possiamo insistere, ma che – oso dire – le meriterebbe il titolo di “Dottore della Chiesa”.

La Repubblica di Genova aveva sempre tributato a Santa Caterina Fieschi Adorno grandi onori, riconoscendo in lei la sua Celeste Patrona, dopo la Santissima Vergine.

A seguito del bombardamento francese del 1684, Santa Caterina, dopo lo scampato pericolo, fu proclamata Patrona della città assieme a San Giuseppe.

Celebre è la visione del francescano Padre Candido Giusso, che, in occasione della rivolta antiautriaca del 1746, la notte tra il 9 e il 10 dicembre, nel momento in cui  più  difficile  era  la battaglia,   vide, dalla   finestra   del   convento annesso al Santuario di Nostra Signora di Loreto, Santa Caterina che pregava la Madonna per il bene della città.

Tale visione ben sintetizza il celeste patrocinio di cui godeva la Repubblica, accostando la figura della nostra Santa a quella della Vergine, già proclamata Regina di Genova il 25 marzo 1637.

Ma chi era Santa Caterina?

Caterina nacque nel 1447 (siamo quindi in un altro importante anniversario, 570 anni dalla nascita), probabilmente a primavera, con certezza non oltre  maggio. Pochi mesi separano  la sua  nascita da  quella di un altro genovese illustre: Cristoforo Colombo.

Nacque  orfana. Suo padre Giacomo, discendente da  Roberto, fratello di Innocenzo IV, ex Vicerè di  Napoli ed Anziano della Repubblica, era  passato, sin dal settembre del 1446, a miglior vita.

Nel palazzo di Vico Indoratori prima, ed in seguito in quello materno di Vico del Filo, Caterina crebbe come fiore di serra. Le fu educatrice la madre, Francesca Di Negro, di nobilissima discendenza ligure.

Lesse, con ogni probabilità, Dante e Petrarca; con certezza Jacopone da Todi. Ma il suo gusto la portava soprattutto alla lettura dei mistici.

Limbania Fieschi, sorella di Caterina, era entrata nel Monastero di Santa  Maria  delle  Grazie delle Canonichesse Lateranensi; anche Caterina giovanetta tredicenne, sentì l’attrazione del Chiostro, ma non venne ammessa perché troppo giovane, o probabilmente perché la Badessa non voleva ostacolare i diversi progetti della nobile famiglia.

Invero, raggiunta l’età di sedici anni, Caterina fu al centro di un accordo matrimoniale, secondo le abitudini del tempo, tra le due potentissime famiglie dei Fieschi  (guelfi)  e  degli  Adorno (ghibellini).

Giuliano Adorno discendeva in linea retta dal ramo dell’illustre famiglia, che aveva concorso alla conquista di Scio. Questi era uomo di indole, educazione, sentimento, vita irregolare, contraria agli ideali di Caterina.

L’atto nuziale fu, secondo le formalità pretridentine, celebrato il 13 gennaio 1463 nel palazzo di Vico del Filo.

Due anni dopo, Caterina andava ad abitare il palazzo di Giuliano Adorno in Via S. Agnese, oggi Via Lomellini: sul luogo ove sorgeva questo palazzo, si trova ora la Chiesa di S. Filippo. Caterina trascorse i primi cinque anni di matrimonio in una deprimente solitudine, mentre il consorte dilapidava il suo patrimonio tra dadi, carte e la passione muliebre.

Amiche e parenti insinuavano che se Caterina fosse comparsa nello splendore della sua bellezza nei salotti mondani, alle feste, agli spettacoli, al fianco di Giuliano Adorno, questi, vedendola ammirata, avrebbe imparato ad amarla.  Caterina aderì al suggerimento: corse così alla ricerca della effimera gioia nelle vanità. Caterina, fu, nei seguenti cinque anni, idolo della mondanità, ma non fu felice ed anzi giunse ad essere infelicissima.

Arriviamo così al 20 marzo 1473, alla vigilia della festa di San Benedetto; ella si recò alla chiesa del Santo, dove formulò questa singolare preghiera: “San Benedetto, prega Dio cha mi faccia stare tre mesi in letto”. Il giorno seguente alla festa del Santo – 22 marzo – Caterina si reca da sua sorella Limbania al Monastero di N. S. delle Grazie. La pia sorella cerca di confortarla e la invita ad aprire il suo animo al Confessore. Ai piedi del Confessore, avvenne il fatto più importante della vita della nostra Santa  –  quello  definito  della  sua “conversione”: subito ricevette una ferita al cuore d’un immenso amore di Dio, e gettò un grido che resterà sintesi e programma della sua vita futura: “Amor mio, non più mondo, non più peccati”.

Tornata al palazzo di Via Sant’Agnese, ebbe poi la celebre visione del Cristo, carico della croce, tutto insanguinato dal capo ai piedi, tanto che pareva che dal suo corpo piovesse sangue. E le fu detto interiormente: “Vedi questo sangue? E’ sparso tutto per tuo amore e per soddisfare per li tuoi peccati”.

Il 24 marzo, vigilia dell’Annunciazione, Caterina fece la sua Confessione generale ed  il 25 marzo 1473 si accostò alla Santa Eucarestia.

Da quel memorando marzo 1473, per tutto il corso della sua vita, l’Eucarestia resta il suo cibo celeste.

   Caterina non rimase volontariamente, neppure  un  giorno di sua vita,   senza   ricevere l’Eucarestia.

La ricevette anche quando Genova, nel 1498, fu colpita da Innocenzo VIII con interdetto di dieci giorni, recandosi –  secondo  la  tradizione – al  Santuario di N.S.  del Monte, oppure alla Chiesa di N. S. della Consolazione, Chiese che sorgevano  fuori  porta. La frequenza quotidiana alla Comunione da parte di Caterina stupisce, inquadrando questa pratica nel suo secolo, nel quale comunicarsi una volta al mese era cosa rara anche per le anime elette.

A questo punto possiamo entrare in qualche considerazione sulla spiritualità di Santa Caterina.

Santa Caterina Fieschi presenta un perfetto esempio di misticismo, in cui si fondono il contemplativo inabissamento in Dio e la feconda attività, misticismo dell’unione con Dio e misticismo dell’azione.

Tra  le diverse esperienze mistiche di Santa Caterina, le fonti ne ricordano una nei primi anni dopo la conversione: trovandosi di fronte ad una immagine del Crocefisso, ella si sentì portata da un volo mistico sopra il Calvario, come se si trovasse di fronte a Gesù, appena spirato in croce: ivi – narrano le fonti antiche – per la piaga del sacro costato Caterina  fu introdotta alla visita del cuore di Gesù, che le sembrò un cuore di fuoco, e di tal fuoco che sentì come liquefarsi l’anima e il corpo per  la vicinanza di quel divino ardore, per cui, come tutta trasformata in Dio, sospirando diceva: “io non ho più anima, né cuore; ma l’anima mia, il mio cuore è quello del mio dolce Amore”.

Le fonti dicono che dal costato Caterina passò alle labbra di Gesù, da cui le fu dato un bacio, quello che gli autori spirituali definiscono il “mistico bacio”, l’elemento più significativo del matrimonio spirituale, la cui essenziale componente è l’unione tra Cristo – Sposo e la sposa (la persona in grazia contemplativa).

L’effetto di quel divinissimo bacio fu di sommergerla totalmente in Dio, tanto che ripeteva le parole di San Paolo: non vivo più io, ma Cristo vive in me.

Nonostante queste altissime esperienze mistiche, la Santa non si estraniò da quello che la circondava, mirò a tessere il suo quotidiano in una mirabile ed edificante armonia tra ascesi e prassi.

Sin dai primi anni dopo la sua conversione, l’Amore di Dio la spinge – come ricordano ancora le fonti antiche – ad “esercitare la opere della pietà. Et andava per la città curando poveri”.

Iniziò così un servizio ai poveri, per così dire, a domicilio, associandosi alle Dame della Misericordia.

La nobildonna genovese penetrava nei vicoli abitati dai più poveri, entrava come un raggio solare in quelle abitazioni, dove, abbandonati da tutti, giacevano gli infermi più gravi. La nobilissima Fieschi prese a visitare anche l’Ospedale di San Lazzaro per i lebbrosi, curvandosi addirittura a baciarne le piaghe.

Intanto, poco dopo la conversione di Caterina era avvenuto il crollo finanziarîo di Giuliano Adorno. Dallo sfarzo principesco, la Fieschi si ritrovò, non dico in povertà, ma in una certa ristrettezza di mezzi. La sventura che lo aveva colpito, la santa e rassegnata calma dalla sua consorte, lentamente commossero e piegarono a penitenza l’Adorno. Dal 1478 Giuliano è il compagno fedele di Caterina nelle sue opere pie. I due prescelsero come abitazione una modesta, ma dignitosa, casa nel borgo di Portoria. In questa casa, sita nel territorio dell’Ospedale di Pammatone, Caterina trascorse il rimanente tratto della sua vita terrena ed in essa morirà.

Nel 1489 Caterina fu eletta Rettora di questo Ospedale (potremo dire l’amministratrice), carica di grande responsabilità, che tenne probabilmente per circa otto anni.

In quei trentadue anni trascorsi da Caterina nell’Ospedale (dal 1478 al 1510), per ben cinque volte la peste visitò la città di Genova, quella del 1493 fu la più terribile. In tale dolorosissima contingenza ella brillò per soprannaturale eroismo.

La Fieschi radunò attorno a sé un cenacolo eletto di discepoli, tra cui il  notaio  Ettore  Vernazza,  che  diventerà  l’Apostolo  degli Incurabili a Genova, Napoli e Roma,  splendida  figura  di  vero  umanista  cristiano, di cui è in corso la causa di Beatificazione,  e  il sacerdote  Cattaneo  Marabotto, confessore  e  direttore  spirituale della Santa.

Sul Vernazza avremo modo di ritornare, anche perché è a lui che si attribuisce direttamente la fondazione della Comunità delle Suore Figlie di San Giuseppe.

A questi devoti, attenti a fissare sulla carta, parola per parola, le lezioni sublimi della Maestra, si deve la redazione materiale delle opere, il Trattato del Purgatorio e il Dialogo Spirituale, il cui contenuto è oggi con certezza, dopo che i sospetti di von Hügel si sono rivelati assolutamente infondati, attribuito a Santa Caterina.

Gli ultimi anni della vita terrena di Caterina Fieschi sono espressione di più acuti fenomeni mistici.  Una sovrumana fiammata d’amore divampa nel suo cuore, sottoponendolo ad un autentico martirio. Il fuoco amoroso, riverberando nel corpo, le scottava le carni, che diventavano come arse e ingiallite per fiamma costante.

Ora noi consideriamo queste esperienze mistiche come un grande dono del Cielo, ma dobbiamo considerare che si trattava, come ho detto, di un vero e proprio “martirio”.

Il Cardinale Giuseppe Siri, devotissimo, da buon genovese e da fine teologo, di Santa Caterina, in una omelia a lei dedicata nel 1983, ricordava che la Santa “ebbe da sostenere, oltre al peso del servizio, il peso gravissimo della vita mistica…….Quello che rende grande il servizio di Santa Caterina…….non è soltanto quello a cui ha rinunciato, quello che ha scelto, nella posizione di allora, ma era che tutto questo ha fatto avendo sulle spalle il peso di una elevazione mistica” (P. Candido Capponi, Magna cum parvis componere. I fioretti del Cardinale Siri. Genova, 2006 p. 74).

Una antica Vita di Santa Caterina osserva che, essendo ella Rettora dell’Ospedale cittadino di Pammatone, “pareva impossibile una persona tanto occupata nelle faccende esteriori, poter nell’interiore di continuo sentire tanto gusto e così per il contrario, che immersa nel fuoco del divino amore, si potesse del continuo esercitare nelle faccende” (Vita mirabile e dottrina santa della Beata Caterina Fiesca Adorna da Genova, Genova 1712, cap. VIII).

La morte venne a rapirla a questa terra nella notte tra il 14 e il 15 settembre 1510. I discepoli si erano chinati sulla Maestra, chiedendo se volesse comunicarsi, ma Ella, ormai presaga della fine imminente, lanciò un grido nostalgico: “Non più terra, non più terra”.

Il corpo della Santa si conserva ancora oggi integro nella Chiesa della SS. Annunziata di Portoria, esposto alla venerazione dei fedeli.

Il culto di Beata venne approvato da Clemente X il 6 aprile 1675. Steso poi regolare processo, Clemente XII il 16 giugno 1737 firmò la Bolla di Canonizzazione.

Delle vicende relative a questa causa ha trattato Don Paolo Fontana nel pregevole libro: Celebrando Caterina  (Ediz. Marietti, 1820).

Quante riflessioni si potrebbero fare sulla vita di questa santa laica, prima maritata e poi vedova, senza figli propri, ma attenta alla cura di una figlia naturale del marito: fu vero modello di pazienza nella vita matrimoniale, da quando accettò innanzitutto quel matrimonio, rinunciando ai suoi progetti di vita religiosa, e per di più con tale uomo, così dissimile, che riuscì però a riportare ad una vita di fede e moralmente retta, tanto che si iscrisse al Terzo Ordine di San Francesco.

Santa Caterina ci insegna l’ordo amoris, per cui l’amore per il prossimo, per i fratelli, non può essere disgiunto dall’amore di Dio.

Ammoniva ancora il Cardinale Siri nella ricordata omelia: “E’ una cosa troppo comune al nostro tempo di far scendere la cose che stanno sopra al piano divino, incorrotte ed ammirevoli, farle scendere al piano di terra e stemperarle in cose che sono il contentino della vanità della vita. I fratelli si amano per amore di Dio. E i fratelli sono tutti nostri simili che si presentano in vari tempi, in vario modo, in diverse successioni, con gradualità. Quindi non sono dei soggetti per esperimentare la nostra vanità, sono dei soggetti che aspettano da noi l’aroma del sacrificio”.

Qui sta la differenza, essenziale tra la carità cristiana e una vaga filantropia, una generica solidarietà, sociologicamente intesa.

Per misurare l’autenticità della carità non c’è che il metro del sacrificio.

Santa Caterina fu eroica nel sacrificio, accettando, lei di famiglia nobilissima, di prestare per anni, costantemente, i più umili servizi a poveri ed infermi, così come accettando il doppio peso di una vita di servizio agli altri e di una vita arricchita, ma anche gravata, da straordinarie esperienze mistiche.

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Non diversamente si comportò il suo prediletto figlio spirituale Ettore Vernazza, notaio genovese, nato intorno al 1470 e morto nel 1524.

Non sorprenda il fatto che, non essendo ancora intervenute le prescrizioni tridentine circa la tenuta dei registri parrocchiali, sia incerto l’anno di nascita: lo è anche quello di molti suoi grandi compatrioti contemporanei: Cristoforo Colombo, Papa Giulio II, Andrea Doria.

Le Cronache e documenti certi, direttamente ed indirettamente relativi al Servo di Dio offrono notizie più che sufficienti per delineare un quadro sicuro della sua vita e delle sue opere, ma soprattutto delle sue virtù.

La figlia, la Venerabile Battistina VERNAZZA, anche lei Canonichessa Regolare Lateranense, e figlioccia di Santa Caterina, osservava, nella Lettera da lei scritta ad istanza del Rev. Gasparo da Piacenza, che “perché haveva abbandonato sé stesso, et  per sua proprietà non faceva cosa alcuna, ma tutto per Dio, sua Maestà gli faceva sì che gli sortiva ogni cosa ottimamente. Egli haveva un animo et fiducia magna sì, che tutto sperava. Et a me diceva: <quando io metto la mano in qualche cosa, Dio gli mette lo crescente>…”. (Opere spirituali, Verona,, 1602, to. IV, pp. 1-11).

In particolare, si trovano armonizzate nella personalità e nelle opere di Ettore Vernazza un’altissima vocazione mistico – spirituale, che lo rese, come si è detto,  tra i discepoli prediletti di Santa Caterina da Genova e forse tra i redattori della sua vita, una rara profondità intellettuale, che ne fece un esemplare umanista cristiano, un formidabile spirito pratico, che lo animò nella costituzione ed organizzazione di istituti di assistenza e di beneficenza in tutta Italia, istituti che rappresentavano, per la sua epoca, la soluzione più avanzata per i più gravi bisogni.

Amor divino e spirito “di servizio” già si trovavano, come si è detto,  sintetizzati nella vita della Maestra del Vernazza, Santa Caterina.

Dallo studio, sia pur sommario, della vita di Ettore Vernazza, definito da Federico Donaver “l’uomo più benefico del suo tempo(La Storia della Repubblica di Genova, vol. II, p. 109), “un nome – secondo G. B. Semeria –  che supera ogni elogio, degno di perpetua benedizione presso i Genovesi non solo, ma ben anche in tutta l’Italia” (Secoli Cristiani della Liguria, vol. I, p. 228),  emerge innanzitutto la profonda spiritualità, che già si manifestava, sempre secondo la testimonianza della figlia, in uno stile di vita personale e familiare devoto, pio (confessione e Comunione settimanale), riservato, contrario ad ogni dissipazione, mortificato, casto: la mortificazione cristiana non era però motivo di inoperosità, di depressione delle sue grandi doti naturali, arricchite dalla Grazia, di rinuncia al combattimento nel mondo: in lui, che, ancora secondo le parole della figlia, si era <offerto a Dio e al servizio dei poveri>, si coglieva invece un’indomabile <inclinazione a fare opere pie>; tra queste, dopo la rifondazione della Compagnia “del Mandilletto”,  che (per usare le parole degli Statuti, come una barca nel mare, portava “provvigioni temporali e spirituali ai poveri infermi della città nostra), la costruzione e l’amministrazione dei cd. Ospedali per gli Incurabili, a Genova, Roma e Napoli.

L’opera degli Ospedali per gli Incurabili, Ospedale che a Genova si trovava nell’attuale Via Ettore Vernazza (il cd. Ospedaletto), veniva portata avanti dalla Compagnia del Divino Amore, Compagnia sorta su ispirazione di Santa Caterina, che riuniva un gruppo di 36 laici e 4 sacerdoti, impegnati prima di tutto a santificare se stessi e poi, coerentemente, a tradurre in pratica il precetto della carità verso i fratelli.

Per il Vernazza una città era troppo poco, il suo slancio caritativo lo portò a diffondere il modello organizzativo genovese anche a Roma e a Napoli: a Roma trasformò l’ospedale di San Giacomo in Augusta in Ospedale degli Incurabili ed anche a Napoli, con la collaborazione di Lorenza LONGO, fondò un Ospedale per gli Incurabili, sempre attraverso lo stesso schema di una Compagnia del Divino Amore che si assumesse, attraverso società in cui fosse operante la presenza di uno o più dei “fratelli”, la responsabilità della gestione.

Nella sua creatività egli seppe unire strutture vecchie e nuove, per meglio dire seppe trasformare le strutture vecchie in nuove, ridando ad esse una nuova anima, che altro non è  che la Carità, e da esse fa dipartire tante diramazioni quanti sono i bisogni visti.

Il Vernazza pensa ad assistere i poveri e i bisognosi, ma cerca anche di andare alle cause del fenomeno e di porvi rimedio.

Dato che la malattia degli incurabili (la sifilide) era legata alla pratica della prostituzione, in quei tempi diffusa sia dalle condizioni di miseria, sia dalle invasioni militari, il Vernazza cerca di affrontare alla radice il problema, occupandosi di quelle ragazze che, senza mezzi, avrebbero potuto facilmente cadere in una vita disordinata.

Nascono così le istituzioni per le ragazze povere così come quelle per le donne che, costrette dalla povertà ad una vita disordinata, desideravano ritornare a recuperare la loro dignità, le cosiddette “convertite”.

Attorno a questa sala si avevano materialmente i siti di queste istituzioni: l’Ospedaletto, come si è detto, in quella che è ora Via Ettore Vernazza; l’Istituto (in passato Conservatorio) di S. Giuseppe (Istituto che ora ha sede in Salita San Rocchino) per le ragazze povere, dove è attualmente Largo S. Giuseppe, e sempre nella zona di Portoria vi era anche il Monastero delle Convertite (confluite nel Monastero, tuttora esistente, delle Agostiniane di Santa Chiara e di San Sebastiano, in Capo Santa Chiara e di cui lo scorso anno abbiamo ugualmente celebrato il V Centenario di Fondazione).

Aggiungiamo anche la preoccupazione per i ragazzi, che potremmo dire “di strada”, per cui è considerato anche fondatore del Collegio degli orfani di San Giovanni Battista.

Davvero Portoria era un’isola sacra alla religione e alla carità; ne rimane traccia nella Chiesa di S. Caterina, che, come si è detto, conserva il corpo della Santa, e nella Chiesetta di S. Camillo, dei Padri Ministri degli Infermi o Camilliani.

Le sue preoccupazioni del Vernazza non si volgevano però solo ai bisogni materiali dei fratelli bisognosi ed infermi, per i quali sapeva mettere a disposizione, in modo previdente ed oculato, le risorse che raccoglieva, ma anche a quelli spirituali e culturali.

Attraverso il sistema, che vedremo, del “moltiplico”, istituì e dotò cattedre (con la precisazione che i maestri fossero “dottissimi”) di diritto, medicina, grammatica, retorica, filosofia e teologia, tanto da essere considerato tra i fondatori dell’Università di Genova.

Per i suoi concittadini poveri egli previde l’istituzione di servizi gratuiti di medici, chirurghi, farmacisti ed avvocati, che ricevevano lo stipendio dai fondi da lui lasciati; sollevò la città dalle gabelle più odiose, come il dazio sul vitto, né dimenticò la Cattedrale, il suo San Lorenzo, al cui decoro ed ingrandimento ugualmente provvide.

Il suo programma, di concreto umanesimo cristiano, “che la città sia sempre tranquilla e in pace e bene economicamente si difenda e sia fornita di uomini dottissimi genovesi o di fuori, di buona vita e di buona fama e timorosi di Dio”, è quanto mai lontano da ogni utopismo.

Con la sua tenacia di ligure, con l’amicizia dei potenti, con il suo intuito giuridico e finanziario egli pose le basi di opere destinate a sfidare i secoli.

Con il notaio genovese ci troviamo di fronte non solo all’uso della ricchezza a favore dei poveri, ma, nel contesto di un disegno finanziario grandioso, alla sua “moltiplicazione” programmata e guidata nel tempo.

Questo disegno finanziario venne espresso nel cd. Istrumentum locorum, atto rogato dal notaio G.B. Strata il 16 ottobre 1512, suddiviso in tre parti:

  • Le tavole di fondazione con l’istituzione del fondo finanziario utile e sufficiente alla creazione delle opere volute;
  • Le norme amministrative per il funzionamento delle opere e la loro organizzazione interna;
  • Le liberalità a favore di enti e persone.

Il Banco di San Giorgio raccoglieva in un’unica amministrazione le cd. “Compere di San Giorgio”, che costituivano l’ammontare dei prestiti effettuati dai privati per finanziare le imprese condotte sotto il controllo o con l’intervento diretto della Repubblica di Genova.

Sono state assimilate ad un Registro del Debito Pubblico.

Ogni “compera” era divisa in “luoghi” e ogni luogatario era creditore del prestito concesso rappresentato dai suoi “luoghi”.

Ogni “luogo” dava un reddito di interesse denominato “provento”; più “luoghi” costituivano una “colonna”.

E’ questo il senso del “moltiplico”: i mezzi finanziari per le opere progettate erano dati dalla colonna del Vernazza presso il Banco di San Giorgio, che ivi depositata e sempre intangibile, doveva produrre i proventi necessari a due differenti indirizzi. Una parte serviva a raddoppiare il capitale, l’altra parte alle spese per la razionale e cronologica realizzazione delle opere. Ad un dato tempo, cronologicamente definito dal Vernazza, la somma raggiungerà addirittura i 6000 luoghi, somma veramente eccezionale, che consentiva l’esecuzione di tutti i progetti benefici del Vernazza e destinata nel tempo a moltiplicarsi ancora. Tale fondo sussisterà fino a quando avrà vita la Repubblica di Genova.

Il segreto della straordinaria fecondità della sua attività caritativa era la sua fonte, ossia l’ardente desiderio di onorare e servire Dio:  <faceva tutto per Dio>, ribadisce la figlia.

Sembrava che egli vivesse sulla terra solo come strumento della Divina Provvidenza: pio, intelligente, colto, misericordioso, saggio, prudente, dal carattere virile, deciso ed intraprendente, dotato di grandi doti umane, potremmo dire della capacità di entrare in “simpatia” con il prossimo, sapeva essere amico dei ricchi e dei potenti per meglio servire i poveri.

Seppe fare della sua vita un vero olocausto, morendo in occasione di una delle ricorrenti pestilenze, martire della carità: pur conoscendo il pericolo del contagio, egli, come ci attesta la figlia, ammirata da “tanta fortezza in quella mente santa”, lo disprezzò con purissimo eroismo, servendo gli appestati. I suoi resti – come è fama – finirono nell’acervo di tutti gli altri appestati.

Si mantenne sempre umile ed obbediente: obbediva ad un sacerdote, pure poco colto, come se fosse  <la voce di Dio>.

La sua umiltà lo portò a rifiutare qualsiasi segno di riconoscenza e di onore nei suoi confronti, ad esempio un ritratto, che volevano porre nel Lazzaretto, un’altra sua opera, giudicandolo “fumo”.

Ciononostante, la grata memoria dei genovesi edificò, in suo onore, busti e statue (una attualmente nell’atrio dell’Ospedale di S. Martino,  ed un’altra presso l’Albergo dei Poveri), e gli intitolò una strada del centro cittadino (una strada è intitolata al VERNAZZA anche a Roma).

Il suo è un vero e proprio ritratto di mistico umanista, o, se si preferisce, e come hanno ripetuto i secoli, di cristiano perfetto ed esemplare.

Conoscendo la vita di Ettore VERNAZZA, restiamo ammirati dalla quantità e qualità delle sue opere, ma il fondamento della sua cristiana grandezza non sta propriamente in esse, bensì in quell’Amore che attraverso esse solo traluceva, in quella docilità allo Spirito, in quell’affidamento interiore, che egli ben aveva appreso alla mirabile scuola di S. Caterina Fieschi Adorno.

Il VERNAZZA aveva il desiderio di salvare i corpi dei suoi fratelli, colpiti dalla sifilide o dalla peste, così come aveva desiderio di dare ad essi una completa educazione umana, perché aveva il desiderio di salvare le loro anime.

Questa è la lezione di Santa Caterina, questa è la lezione di Ettore Vernazza: sono sicuro che le loro figlie, le Suore di San Giuseppe, sapranno sempre onorare questo alto ideale, anche nella loro opera educativa: educare e formare i giovani per il bene innanzitutto  delle loro anime.